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21 Marzo 2014
Glastonbury, fra rock, fango e nuvole.

Da dove comincio? Sì, perché si tratta solo di 3 giorni (5 per l'esattezza, 3 dei quali dedicati ai concerti) ma l'offerta è stata, come sempre, impressionante.

Sono partita per la musica ma è con un universo fantastico che sono tornata a casa.

Glastonbury è il "Festival of Contemporary Performing Arts" più famoso al mondo, un'espressione intraducibile per indicare tutte le arti dello spettacolo dal vivo, quindi dal circo al teatro, dalla danza alla musica.

Ma il festival attira gente da tutto il mondo, principalmente per la vastità degli spazi proporzionali solo alla qualità della proposta musicale, anche se Glastonbury è molto di più.

Quest'anno il festival si è tenuto come sempre a fine giugno nella Worthy Farm di Pilton, vicino all'antica e mistica Glastonbury – che dà il nome al festival – crocevia di affascinanti leggende cristiane e pagane che indicano il luogo come prima dimora del Sacro Graal e come mitizzato sepolcro delle spoglie reali di Artù e Ginevra.

Senza contare che Pilton dista appena 50 miglia da Stonehenge.

Il nome Pilton è contrazione di Pool Town, e non è un particolare da poco.

Infatti il tutto si svolge all'interno di una farm privata, un'immensa fattoria adagiata in una conca dolce e verdissima di proprietà del settantasettenne Michael Eavis, dalla doppia anima di fattore inteso come casaro e fattore nella sua accezione di demiurgo del rock.

Essendo un'area bonificata bastano poche gocce di pioggia – e da quelle parti le precipitazioni tendono ad essere generose – per riportare la zona allo stato di palude di fango argilloso da cui trae origine, costringendo i partecipanti a munirsi di originali e meglio se isolanti stivali di gomma. Non è un caso che proprio qui, qualche anno fa, Kate Moss lanciò i famosi Hunter Boots. Spesso un solo paio non basta, perché non è raro che vengano fatalmente fagocitati dalla melma. Guarda caso, l'icona che identifica l'App di Glastonbury 2013 è un paio di stivali di gomma: inno, simbolo, sintesi e mascotte.

Per questa serie di coincidenze, più o meno volute, si può dire che Glastonbury sia il degno e unico erede di Woodstock che, con quel raduno, condivide soprattutto lo spirito.

Come recita la T-shirt ricordo che ho acquistato in una delle tante edicole del festival – quasi tutte rigorosamente Fair Trade – l'edizione 2013 di Glastonbury ha visto allestire più di 100 palchi. L'incredibile velocità delle squadre dei tecnici (30.000 donne e uomini di personale, per l'esattezza) ha permesso l'esibizione di artisti a distanza di mezz'ora dalla fine del concerto precedente, su ogni palco, a partire dalle 9/10 di mattina fino a notte fonda. Per chi volesse dare un'occhiata alla Line-Up dell'ultima edizione rimando al sito ufficiale (http://www.glastonburyfestivals.co.uk/line-up/) ma avverto che la lettura potrebbe essere lunga.

Quello di quest'anno è stato il mio primo Glasto (affettuoso appellativo di noi addicted).

Acquistare il biglietto è un'impresa difficile, titanica e paziente, che inizia a settembre dell'anno precedente.

Si parte dall'identificazione fotografica (Scotland Yard vuole guardarti negli occhi) e, dopo l'eventuale ok, al tentativo pressoché impossibile di accedere al sito per l'acquisto, a partire da un'ora stabilita di un giorno di inizio ottobre. Per questa edizione un nuovo record: i biglietti sono andati sold out in appena 1 ora e 40 minuti in tutto il mondo. Io, ormai sopraffatta, sono riuscita ad avere due biglietti dopo un'ora e 35 minuti. Sbattezzata per mesi, beatamente stordita, lo slancio euforico si è spinto fino a Natale. Tutto questo senza avere la minima idea degli artisti in scaletta (per usare un eufemismo). L'elenco delle band esce infatti intorno a metà marzo. Ma dando un'occhiata alle uscite discografiche dell'anno, si può intuire – o sperare di intuire – chi potrebbe esibirsi a fine giugno su uno dei 100 palchi. Ogni artista di fama mondiale che si rispetti (è ovvio che sia così anche per quelli meno noti) ha dichiarato che l'esibizione a Glasto è la più ambita, la più seducente e coinvolgente, oltre ad essere un alto riconoscimento per la propria carriera. Perciò non sai chi acquisti, ma sai cosa acquisti.

Come già detto, essendo il mio primo Glasto, tesi suffragata anche dal mio amico di penna Antonio veterano del festival senza il quale sarei partita ancora di più alla cieca, ho diviso il mio tempo soprattutto fra i palchi principali: Pyramid, Other Stage, John Peel e Acoustic, ben sapendo che le sorprese sarebbero state negli angoli più remoti del festival.

Ma ho vissuto intensamente l'atmosfera.

Mi sono fermata a lungo ad osservare il pubblico, il più disparato, dai neonati le cui carrozzine sfida-fango (più spesso variopinte carriole riempite di soffici cuscini) facevano sfoggio di luminosi ornamenti a fiorellini, ai gruppi di amici travestiti da alieni, giaguari, coccodrilli, rockabilly texani in tutù di tulle o semplicemente tutti vestiti color fuxia (fango o non fango) con parrucche violette, o tutti in bluette in livrea da hostess, poco importa se con barba e baffi.

Ho assaporato il cibo più vegan della Cool Britannia e quello più piccante del continente americano, il pane appena sfornato, le ciliegie del Kent, la tartiflette e la quiche, in un caleidoscopio di cucine di cui, in molti casi, ignoravo l'esistenza. Tutto rigorosamente all'aperto, seduti per terra, freddo o non freddo (fango o non fango).

Ho bevuto di gusto il sidro di mele più artigianale del mondo – o almeno del Somerset – prodotto dai mastri sidrai locali, che con orgoglio dissetano il pubblico di Glastonbury fin dalla sua prima edizione (1970), spillato a fiumi dalle finestre del vecchio double-decker color azzurro cielo.

Ho riempito gli occhi del fuoco sputato a grappoli dall'enorme ragno-robot dell'Arcadia, una disco a cielo aperto, che inizia il suo bollente spettacolo a partire dalla fine dell'ultimo concerto, con i migliori dj in circolazione piazzati nel suo ventre metallico.

Ho scalato la Ribbon Tower per una vista mozzafiato del festival in una mattina serena di vento teso.

Ho osservato la marea umana ballare per ore dall'alba al tramonto sotto i variopinti tendoni da circo a tema da cui uscivano suoni tecno, reggae, afro e perfino silent.

Già. Fin qui non ho ancora parlato veramente di musica. E dire che ho assistito ai concerti dei Rolling Stones, di Nick Cave, dei PIL, degli Smashing Pumpkins, dei Primal Scream, dei Mumford & Sons, dei Vaccines, dei Vampire Weekend, degli Arctic Monkeys, delle Haim, di Elvis Costello, di Sinead O'Connor, per essere davvero molto sintetici.

Mi sono persa molti Easter Egg (per traslare una bella espressione dal mondo informatico), concerti "nascosti" non contenuti nel programma ufficiale – letteralmente "uovo di Pasqua" (quindi, sorpresa). Fra cui quello degli Alt-J, il cui nome significa "delta" (lettera greca), risultato della combinazione dei due tasti Alt+J nelle tastiere inglesi dei Mac. Chi meglio di loro poteva condensare il concetto di Easter Egg?

Mi sono divertita nel vedere un numero sconcertante di bandiere, quelle altissime su canna da pesca – tipiche di questo festival – ad ogni concerto, probabilmente concepite più per farsi ritrovare dagli amici che per dichiarare un credo o un'appartenenza.

Mi sono emozionata nell'ascoltare tutti i pezzi di Mick Jagger e compagni eseguiti con intatta vitalità (e magrezza), 50 ani di una carriera costellata di prodigi ed eccessi offerta generosamente al vorace pubblico di Glastonbury. Mi sono commossa quando un'enorme Fenice piazzata sul tetto a punta del Pyramid ha dispiegato le proprie ali sputando fuoco dal becco in ogni direzione sulle note di Sympathy for the Devil. Un'eterna rinascita quella dei Rolling Stones, sulle cui ceneri hanno preso vita nuovi generi e molte band, ma offrendo soprattutto rinnovata linfa al proprio repertorio, senza perdere una piuma, che piuttosto brucia pur di non cadere.

Mi sono innamorata dei Mumford & Sons, perché sono riusciti a far ballare tutti, sull'enorme prato, di notte, col freddo. Possiedono una squillante energia folk, autentica e senza economie, condita da una dotta conoscenza della musica, come solo le band inglesi (anche le meno colte) sanno combinare.

Mi sono venuti i brividi quando il festival ha chiuso ufficialmente e trionfalmente l'edizione 2013 nel momento in cui i Mumford hanno chiamato sul Pyramid i Vaccines, i Vampire Weekend, le Haim e il coro della London Symphony Orchestra per cantare all'unisono With a Little Help from my Friends.

Un'onda emozionale che ancora non accenna a spegnersi. Come una Fenice.
E l'anno prossimo? Si sono appena chiuse le iscrizioni per il 2014. Sono rimasta fuori. Biglietti venduti in 1 ora e 25 minuti, un nuovo record. Impossibile.

Chi, come me, ha conosciuto Glastonbury da dentro ed è rimasto attaccato alla tastiera nell'attesa che il bianco del caricamento si trasformasse in un rassicurante form d'ingresso, oggi si sente sicuramente orfano.

Alla drogata ricerca di alternative, come il T-in-the-Park scozzese, il Reading Festival inglese, il Rock-am-Ring tedesco, il BBK spagnolo, l'Electric Picnic irlandese o il Green Man gallese, per rimanere nel continente.

Tutti meravigliosi surrogati che sono ansiosa di sperimentare, ognuno con una personalità e tutti con una forte parentela con Glastonbury.

Già, Glastonbury. 5 giorni di un altro mondo, che va molto oltre la musica, un modello (breve) di reale fratellanza e condivisione, uno dei pochi posti in cui smarrire un iPhone sul prato di notte circondati da 150.000 persone per ritrovarlo il giorno dopo alla tenda dei Lost & Found, dove stupito è solo il proprietario.

Tutto si trova e si ritrova a Glastonbury, soprattutto se stessi.

I principali concerti di Glastonbury, nelle varie edizioni, sono tutti visibili sul YouTube nelle versioni ufficiali riprese dalla BBC.

 http://www.lundici.it/2013/11/glastonbury-fra-rock-fango-e-nuvole

Glastonbury, fra rock, fango e nuvole.